Posted On 06/11/2022

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by AVI Admin

Darò libero sfogo al mio lamento?

“Legge n° 1 sulla tutela della salute e del benessere. Vietato lamentarsi!
I trasgressori sono soggetti ad una sindrome da vittimismo con conseguente abbassamento del tono dell’umore e della capacità di risolvere i problemi.
La misura della sanzione è raddoppiata qualora la violazione sia commessa in presenza di bambini…”

Il testo riportato sopra si trova scritto su un cartello, che lo psicoterapeuta Salvo Noè ha realizzato e donato a Papa Francesco al termine dell’Udienza generale di mercoledì 14 giugno 2017. Ora questo cartello si trova appeso alla porta dello studio del Papa!

Vietato lamentarsi! Com’ è possibile obbedire a questo divieto, quando tutto nella giornata va per il verso sbagliato, quando guardiamo il telegiornale o quando la salute non è più quella di una volta? E’ sempre vietato, oppure si può imparare a lamentarsi bene, ovvero a condividere in modo sano i nostri sentimenti?

Vi confido che chi scrive questa meditazione è una professionista nell’arte della lamentela. Non ne vado orgogliosa, anzi, ma mi è difficile abbandonare quest’ abitudine, ecco perché sono anni che cerco di imparare almeno a praticarla “meglio dai vari maestri della Bibbia. Nella Sacra Scrittura ho trovato il profeta Geremia, infatti, che ha composto un intero libro di Lamentazioni; l’autore dei salmi è stato ancora più prodigo, tanto che 11 sono legittimamente chiamati “ Salmi di lamentazione” (44, 58, 60, 74, 77, 79, 80, 82, 83, 90, 125); abbiamo poi tanti esempi da parte Giobbe, di Giona e dello stesso Gesù, quando piange su Gerusalemme al capitolo 23 di Matteo e quando, appeso alla Croce, prega col salmo 21.
Chi di noi non si ritrova ,almeno qualche volta, a rivolgersi a Dio in questo modo?

“ Guarda, Signore, quanto sono in angoscia…nessuno mi consola. (Lam 1,20-21 )”
Stanco io sono della mia vita! Darò libero sfogo al mio lamento, parlerò nell’amarezza del mio cuore. (Giobbe 10,1)
«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Tu sei lontano dalla mia salvezza»: sono le parole del mio lamento. (Salmo 21, 2)

Se nella Bibbia ci sono così tante preghiere di lamento, allora, almeno col Signore, possiamo sentirci più liberi di sfogarci?

Se andiamo all’etimologia della parola scopriamo qualcosa di interessante: il termine italiano “lamento” viene fatto derivare dal latino claméntum (stessa radice di “chiamare” o “clamore”) che esprime il grido, un’esternazione “sonora” di dolore . Vediamo dunque che una prima caratteristica distintiva del lamentarsi è proprio quella di richiamare l’attenzione altrui. La lamentela è fatta per non essere ignorata ma, anzi, per essere udita da qualcuno : ha quindi una dimensione relazionale.
E qual è la Persona che più ci ama e che non distoglie mai le orecchie e lo sguardo dai suoi figli, che è capace di leggere nei cuori e di comprendere i sentimenti più tristi e nascosti , che non si stanca mai un momento di ascoltarci, se non il Padre che è nei Cieli? Ecco perché , con Dio, come ci insegnano i piccoli e grandi santi, possiamo parlare come fanno i bambini coi loro genitori, con confidenza, spontaneità , ma anche con fiducia e speranza. Possiamo esprimergli quello che abbiamo dentro, chiedendogli di venire con la sua grazia nelle nostre paure, nei nostri dolori; con la sua pace nelle nostre arrabbiature e moti di nervosismo; con la sua pazienza nei sentimenti di delusione, di scoraggiamento e di insofferenza… La nostra lamentela diventa così un’ occasione d’oro per crescere nella relazione filiale con Dio, al punto da sperimentare di non essere mai soli!
Sicuramente possiamo trovare in Dio colui che ci comprende e ci accoglie più di ogni altro, tuttavia sappiamo quanto abbiamo bisogno di trovare ascolto anche nelle persone che ci circondano. Se siamo tristi, preoccupati, delusi, vorremmo avere la possibilità di esprimere questi nostri stati d’animo, di parlare dei problemi che ci tormentano, di cercare un conforto, un aiuto. In questi momenti, è molto utile condividere con le persone vicine le proprie emozioni e il proprio vissuto, dar voce al proprio sentire; non facendolo rischiamo di trattenere tutto dentro e di accrescere il malessere.

Come facciamo però a distinguere se ci stiamo solo lamentando in modo improduttivo e sterile, o se stiamo condividendo i nostri sentimenti più spiacevoli?
Per capirlo potremmo farci alcune domande.
Quanto spesso mi accade di esprimere stati d’animo negativi? Se lo faccio di continuo, scaricando le mie frustrazioni sugli altri per abitudine, allora è probabile che io sia nel campo delle lamentele.
Le cose di cui mi lamento sono sempre le stesse da mesi o da anni? Di quali cose mi lamento di più e come mi sento dopo averlo fatto? Quando sto per esprimere una lamentela, se mi fermo in tempo, con cosa posso sostituirla?
Quanto tempo trascorro a rimuginare sulle stesse situazioni, sui fantasmi del passato, alimentando così stati d’animo negativi? Quanto tempo, invece, dedico a ripensare alle cose positive, coltivando un senso di gratitudine verso Dio e verso gli altri?
Quanto sto cercando di trovare delle soluzioni e di dare ascolto ai consigli che ricevo? Quanto invece il lamentarmi mi tiene bloccato nell’impotenza, nel vittimismo, nel senso di ingiustizia (Capitano tutte a me! Non c’è nulla che io possa fare…)? Se ci pensiamo bene, ad alimentare la lamentela potrebbe essere un pensiero: “Io non merito affatto che Dio o gli altri… proprio a me questo non doveva succedere…”. Potrebbe aiutarci meditare le Parole del Figlio prediletto del Padre: “E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare. (Marco 8,31)

Potrei anche chiedermi: “Mi lamento con tutti, senza distinzioni?” Stare ad ascoltare qualcuno che si lamenta richiede una certa dose di impegno e di energia: ci si sente investiti da malumore, tristezza, rabbia, disagio. Se la cosa esce dall’occasionalità e diventa un’abitudine, allora la relazione ne soffre e finisce per logorarsi.

Quando, invece, l’obiettivo non è il lamentarsi fine a se stesso, ma stiamo semplicemente esprimendo le nostre emozioni, sia pure negative, ci rivolgiamo a persone care, che ci possono capire. Pensiamo a Gesù nel Getsemani: era nel momento più doloroso della sua vita e chiede agli apostoli di rimanere a pregare con lui. Poi, però, ne sceglie tre coi quali “cominciò a provare tristezza e angoscia” e ai quali rivela:

“La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me”. (Matteo 26,37-38).

Quindi, anche scegliere i confidenti “giusti” è un passaggio fondamentale della buona lamentela.
Chiediamo allora al Signore la grazia di avere un cuore semplice, disposto ad imparare da Lui il modo migliore per condividere con Dio e con gli altri la nostra sofferenza e i nostri sentimenti più spiacevoli. Coltiviamo la gratitudine per i doni che ogni giorno ci fa e soprattutto perché crediamo che “Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate”. (Apocalisse 21,4)

Proposito concreto: ogni volta che sto per lamentarmi, mi fermo un attimo, prendo consapevolezza della persona che ho di fronte e le chiedo se sia disposta ad ascoltarmi qualche minuto.
Oppure:
Ogni giorno, per ogni lamentela, cerco di trovare un motivo di gratitudine. Ad esempio: se mi lamento che non ho dormito bene la notte, ringrazio il Signore di avermi dato la possibilità di avere una casa ed un letto su cui riposare.

La meditazione di questo mese è di Simona Ciullo.

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