“Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi… Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo…’’ (Romani 8, 18.28-29)
Ogni volta che medito su questa lettera di Paolo, rimango rapita da quel “tutto”, parola alla quale mi accosto chiedendo a Dio il dono della fede e della speranza, per poter credere che davvero tutto quello che accade nella nostra vita concorra al bene. Siamo sopraffatti, a volte, da alcuni eventi in cui sembra davvero “difficile” scorgere un disegno buono del Padre, almeno nella fase iniziale, quando siamo annebbiati dal dolore. Possiamo vivere anche per anni in questa ricerca di senso, fino a quando arriva il momento in cui, proprio in quella nebbia, riusciamo a trovare il filo più prezioso che ci lega alla Luce, la grazia nella dis-grazia! E allora la nebbia si dirada e si arriva persino a ringraziare Dio per quel dolore. Coloro che nella vita hanno saputo cogliere questa grazia sono i santi, ai quali guardiamo proprio come fratelli maggiori che ci testimoniano la verità delle beatitudini. Tra i santi quella che, in questi anni, mi ha conquistata di più è una donna ugandese, con una storia tragica di schiavitù alle spalle, la quale aveva il coraggio di dire: “Se incontrassi quei negrieri che mi hanno rapita e anche quelli che mi hanno torturata, mi inginocchierei a baciare loro le mani…”. Fino all’età di nove anni era vissuta felicemente con la sua famiglia nel villaggio africano di Olgrossa, quando un pomeriggio, mentre passeggiava per i campi, fu rapita da due uomini arabi, tenuta prigioniera per un mese in una capanna stretta e buia e poi venduta varie volte come schiava. Il trauma fu talmente forte che lei dimenticò persino il suo nome, motivo per cui i suoi rapitori la chiamarono “Bakhita”, fortunata! Dopo il rapimento, la bambina fu venduta per cinque volte come schiava, esposta nei mercati, incatenata ai piedi da pesanti catene e obbligata a lavorare senza tregua per soddisfare i capricci dei suoi padroni. Messa a servizio della madre e della moglie di un generale, la giovane affrontò i peggiori anni della sua esistenza, come lei stessa descrive: “Le sferzate si abbattevano su di noi senza misericordia, in modo che nei tre anni che fui al loro servizio, non mi ricordo di aver passato un solo giorno senza ferite, perché non ero ancora guarita dai colpi ricevuti che altri ne ricevevo ancora, senza saperne il motivo. […] Quante mie compagne di sventura sono morte per le percosse subite!”. Un giorno le venne persino inciso un “tatuaggio” sul corpo a colpi di lama di rasoio, 114 tagli, e le ferite coperte di sale perché restassero in rilievo. “Mi pareva di morire ad ogni momento… Immersa in un lago di sangue, fui portata sul giaciglio, ove per più ore non seppi nulla di me… Per più di un mese [distesa] sulla stuoia… senza una pezzuola con cui asciugare l’acqua che continuamente usciva dalle piaghe semiaperte per il sale”. Eppure, raccontando la sua storia, continuava a ripetere: “Se incontrassi quei negrieri che mi hanno rapita e anche quelli che mi hanno torturata, mi inginocchierei a baciare loro le mani, perché… Poveretti, loro non sapevano di farmi tanto male: loro erano i padroni, io ero la loro schiava. Come noi siamo abituati a fare il bene, così i negrieri facevano questo, perché era loro abitudine, non per cattiveria! Sembra di sentire Gesù: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno.” (Luca 23,34) Cosa può spingere Bakhita a parlare così? Cosa si cela dietro a quel “perché” che ci tiene col fiato sospeso? “… mi inginocchierei a baciare loro le mani perché, se non fosse accaduto ciò, non sarei ora cristiana e religiosa.” Si, Bakhita, dopo dieci anni di schiavitù in Africa, venne condotta in Italia da un console che la prese a cuore e la “regalò” come tata ad una coppia veneta che aveva una bambina, Alice, di tre anni. Mentre con la piccola si trovava ospite in un convento di canossiane, venne istruita nella fede cattolica, sentì parlare di Gesù e in Lui riconobbe quel Dio che fin da bambina sentiva in cuore senza sapere chi fosse. “Ricordavo che, vedendo il sole, la luna, le stelle, le bellezze della natura, dicevo tra me: “Chi è mai il padrone di queste belle cose?”. E provavo una voglia grande di vederlo, di conoscerlo, di prestargli omaggio”. Nella sua Enciclica Spe Salvi, il Santo Padre Benedetto XVI così descrive il miracolo che si operò nell’intimo di Bakhita: “Dopo ‘padroni’ così terribili di cui fino a quel momento era stata proprietà, Bakhita venne a conoscere un ‘padrone’ totalmente diverso, che, nel dialetto veneziano, che ora aveva imparato, chiamava ‘paron’ il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo. Veniva a sapere che questo Signore conosceva anche lei, aveva creato anche lei – anzi, che Egli la amava. Anche lei era amata, e proprio dal ‘Paron’ supremo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi stessi soltanto miseri servi. Anzi, questo Padrone aveva affrontato in prima persona il destino di essere picchiato e ora la aspettava «alla destra di Dio Padre»”. A questo “bon Paron” Bakhita, dichiarata ormai libera perché in Italia, si sentì chiamata a consacrare tutta la sua vita come canossiana. Per quarantacinque anni servì la comunità svolgendo lavori umili, conquistando il cuore di tutti con la sua dolcezza e accoglienza, dettando, ma solo su insistenza delle consorelle, le sue memorie e portando la sua testimonianza, in dialetto veneto, su e giù per l’Italia. Due anni di viaggi missionari che le costarono molta fatica ma durante i quali ha lasciato una scia di bontà. Era la suora che l’accompagnava a raccontare la sua storia, lei diceva pochissime parole alla fine e a tutti consegnava questo semplice messaggio: «Siate buoni, amate il Signore, pregate per quelli che non lo conoscono. Sapeste che grande grazia è conoscere Dio». E avrebbe voluto lei stessa poter volare presso la sua gente “e predicare a tutti a gran voce la Tua bontà: oh, quante anime potrei conquistarti! Fra i primi, la mia mamma, il mio papà, i miei fratelli, la mia sorella, ancor schiava…. tutti, tutti i poveri negri dell’Africa, fa’ o Gesù, che anche loro ti conoscano e ti amino!” Bakhita è per me una vera apostola della gratitudine, la quale ha saputo vedere negli eventi della sua vita, persino nei più dolorosi, una strada che il Signore le stava facendo percorrere perchè lei lo incontrasse. Era valsa la pena affrontare tutti quegli anni di buio solo per conoscere Cristo, cosa che probabilmente non sarebbe accaduta se fosse rimasta nel suo villaggio africano. “Tutta la mia vita è stata un dono suo: gli uomini sono strumenti; grazie a loro ho avuto il dono della fede. Se stessi in ginocchio tutta la mia vita, non dirò mai abbastanza tutta la mia gratitudine al buon Dio”.
Proposito concreto: Nella preghiera, cerco di ripensare a quegli eventi che mi hanno portato più vicino a Gesù ed esprimo al Padre la mia gratitudine. Lo ringrazio anche per le persone che, nel bene e nel male, sono state strumenti di ogni mia crescita nella fede!
La meditazione di marzo è a cura di Simona Ciullo